Il male minore
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Il codice morale dello strigo
Il male è male, Stregobor. Minore, maggiore, medio, è sempre lo stesso, le proporzioni sono convenzionali, i limiti cancellati. Non sono un santo eremita, non ho fatto solo del bene in vita mia. Ma, se devo scegliere tra un male e un altro, preferisco non scegliere affatto.
In questo estratto del racconto intitolato proprio Il male minore, all’interno della raccolta de Il guardiano degli innocenti, Andrzej Sapkowski tinge di grigio la morale umana in un dialogo tra il witcher Geralt di Rivia e il mago Stregoborn, esponendo la visione etica dello strigo.
Secondo Geralt, il male non ha gradi: resta tale in ogni sua forma, e quando si è posti di fronte alla scelta tra due mali, la soluzione migliore è non scegliere affatto. Un principio che suona nobile, ma che nella realtà – e soprattutto nell’universo narrativo di The Witcher – si rivela spesso impraticabile.
Nel secondo capitolo videoludico della serie, The Witcher 2: Assassins of Kings, Geralt si ritrova immerso in un conflitto politico e militare che non gli appartiene, ma dal quale non può sottrarsi. È costretto a schierarsi, e ogni scelta comporta sacrifici e ingiustizie. Le sue decisioni, sebbene ponderate, causano la salvezza di alcuni e la condanna di altri. Così, l’ideale del “non scegliere” si frantuma contro la realtà: ogni azione – o inazione – è comunque una scelta.
Il dilemma del carrello
Questa tensione tra scelta e morale è ben rappresentata dal celebre “dilemma del carrello”, un esperimento mentale ideato da Philippa Ruth Foot nel 1967. Un carrello fuori controllo sta per travolgere cinque persone legate ai binari. Davanti a un bivio, possiamo deviarlo verso un altro binario, dove però si trova un solo uomo legato ai binari. Agire significa causare direttamente la morte di quell’uomo per salvarne cinque; non agire significa lasciare che cinque persone muoiano.
La maggior parte delle persone sceglie di deviare il carrello, accettando la morte di uno per salvare molti. Ma se la situazione cambia leggermente, come nella variante proposta da Judith Jarvis Thomson nel 1976, la percezione morale si ribalta. In questa versione, siamo su un ponte e possiamo spingere un uomo grasso sui binari, che sarebbe in grado di fermare il carrello: stesso esito, ma azione diretta.
Qui, molti esitano o rifiutano, perché ora la morte non è un effetto collaterale, ma un atto deliberato. La differenza tra agire indirettamente e agire direttamente influisce radicalmente sul nostro senso di colpa e responsabilità. Questa variante ci permette dunque di capire come non è solo importante l’esito finale, ma anche la percezione del processo attraverso il quale si arriva all’esito.
La percezione morale e la responsabilità personale
La distinzione fra azione diretta e indiretta diventa centrale nel valutare il male minore. Se nel primo caso la morte del singolo è “accidentale” o comunque percepita come indiretta, nel secondo è invece voluta, e quindi percepita come più colpevole. Eppure, il risultato è identico: una vita persa per salvarne cinque. Cambia solo il modo in cui la mente umana percepisce la propria responsabilità. La presenza di “un intermediario” alleggerisce il peso etico e rende più facile la scelta.
Le numerose varianti del dilemma del carrello, come il “loop” di Michael Costa (1987) o l’“uomo nel campo” di Peter Unger (1992), mostrano quanto il contesto e la percezione della responsabilità influenzino le nostre scelte morali. Quando l’azione implica un coinvolgimento diretto nella morte di qualcuno, la scelta diventa più difficile, anche se il bilancio complessivo è positivo. La percezione etica cambia in base a variabili personali e narrative. Ad esempio, se si scoprisse che l’uomo grasso dello scenario di Thomson è colui che ha legato le cinque persone sui binari, la sua morte apparirebbe meno ingiusta, perché il suo sacrificio coinciderebbe con la neutralizzazione del colpevole, non più con l’uccisione di un innocente.
In qualunque modo lo si analizzi, tutto ruota attorno a quanto l’azione — diretta o indiretta — influenzi la nostra percezione di ciò che è giusto o sbagliato. In ogni variante del dilemma, ci troviamo sempre a dover scegliere tra due mali. Il nostro intuito ci spinge, in genere, verso la scelta che comporta il sacrificio minore: meglio una vita perduta che cinque. Tuttavia, la nostra morale interviene quando quella singola vita dipende da un atto che compiamo noi stessi. In quel momento, la scelta ci appare eticamente inaccettabile, anche se — a livello logico — rappresenta comunque il male minore.
Tutto dipende da come interpretiamo il non agire. L’inazione viene percepita come una forma più passiva e indiretta di responsabilità. Così, di fronte alla possibilità di intervenire o restare a guardare, spesso preferiamo non fare nulla. Questo ci consente di alleviare il senso di colpa: possiamo pensare che non sia stata colpa nostra se quelle cinque persone sono morte. Ma se fossimo intervenuti, allora sì, ci sentiremmo direttamente responsabili per la morte dell’uomo sacrificato.
Geralt e il peso dell'inazione
Anche non scegliere è una scelta. Nel mondo di The Witcher Geralt, che si proclama estraneo ai giochi di potere, è costretto a compiere decisioni che plasmano i destini di intere fazioni. E allora sorge una domanda scomoda: chi ha il potere di agire, ha anche il dovere morale di farlo? E, al contrario, chi sceglie di non agire, è esente da colpe?
Nel rifiuto di scegliere tra due mali, Geralt cerca di mantenere la propria integrità, ma finisce comunque per essere coinvolto, perché l’inerzia, nel contesto delle sue possibilità, è essa stessa una forma di azione. La sua etica si confronta così con la realtà cruda della responsabilità, in cui anche l’omissione ha conseguenze tangibili. Chi “può agire” è dunque responsabile della sua scelta di non farlo.
Spinoza e il paradosso del bene minore
Uno sguardo filosofico interessante è quello di Baruch Spinoza, che propone una visione razionalista della morale. Nelle sue opere, tra cui l’Etica dimostrata con metodo geometrico e Trattato teologico-politico, il filosofo olandese definisce bene e male non come entità assolute, ma come concetti relativi derivanti dal confronto tra le cose. Guidati dalla ragione, noi scegliamo sempre il bene maggiore o, in sua mancanza, il male minore. Se un bene impedisce di raggiungerne uno più grande, allora è da considerarsi un male. E viceversa: un male che impedisce uno peggiore, diventa accettabile.
Spinoza sostiene che il concetto di male deriva da una conoscenza inadeguata della realtà. Per lui, tutto ciò che esiste è parte della Natura, identificata con Dio (Deus sive Natura), e segue leggi necessarie. Pertanto, il male non è una realtà oggettiva, ma una percezione soggettiva basata sulla nostra limitata comprensione. Superare questa visione significa riconoscere che ogni evento ha una causa necessaria e che il vero bene consiste nell’agire secondo ragione, comprendendo la necessità delle cose e orientando le nostre azioni verso ciò che accresce la nostra potenza di esistere.
In questo modo la scelta del male minore si giustifica come via per raggiungere il bene maggiore. Ma resta una prospettiva problematica: la razionalità può ridurre la sofferenza a numeri e proporzioni, ma l’etica si scontra con l’individualità di chi subisce il danno. Nessuna formula geometrica può assolverci dall’angoscia morale di dover sacrificare qualcuno.
Prepararsi all’inaccettabile
Stabilire cosa sia giusto o sbagliato in situazioni estreme è tutt’altro che semplice, e giudicare chi sceglie il male minore non è mai del tutto equo. La prospettiva da cui si guarda, la lucidità del momento e la forza interiore giocano un ruolo decisivo. Il male minore non è una facile giustificazione, ma una prova della nostra capacità di giudizio e della nostra empatia. Nessuno vorrebbe trovarsi davanti a certe scelte, ma prima o poi la vita ci metterà alla prova. In quei momenti, conoscere il proprio metro morale sarà essenziale, perché ogni decisione – anche quella di non scegliere – lascia un segno. Nel bene e nel male.