La terapeutica chiusura di un parco

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Il segreto che alimenta la curiosità

Fin dal primo capitolo della saga, il “segreto di Monkey Island” è stato il fulcro delle teorie e delle speculazioni dei fan. Per oltre trent’anni, l’idea di un mistero mai pienamente svelato ha rappresentato la miccia che ha continuato ad accendere l’immaginario collettivo, coinvolgendo nuovi giocatori e mantenendo viva la passione di chi c’era sin dall’inizio. Con Return to Monkey Island (2022), Ron Gilbert e Dave Grossman hanno riportato in scena il franchise dopo tanto tempo, risvegliando sensazioni legate a un passato quasi mitico, dove ciò che mancava era proprio una degna conclusione.

Un finale ossimorico

Il finale di Return to Monkey Island (2022) appare oltremodo ossimorico, addirittura paradossale. Non tanto nel suo significato puramente espositivo, ma nel ruolo meta-narrativo e quasi “terapeutico” che assume, sia per gli sviluppatori sia per i fan.

È come se, per un istante, il gioco smettesse di essere intrattenimento puro, trasformandosi in uno strumento di elaborazione emotiva, utile a lasciar andare un tempo ormai passato con amore e nostalgia, con dolore e consapevolezza, in una conclusione che é definizione stessa di finale dolceamaro.

L’operazione si fa tangibile quando ci si rende conto che l’obiettivo vero non è più “scoprire il segreto”, ma accettare la necessità di chiudere un capitolo che ha rappresentato l’infanzia, l’entusiasmo e forse un po’ di magia videoludica irripetibile.

Accettare la fine di un’era

Ciò che affronta questo titolo, sotto le mentite spoglie di una nuova avventura alla ricerca del segreto di Monkey Island, é il tema dell’accettazione attraverso la figura di Guybrush, eco del giocatore. Così come il protagonista fatica a rassegnarsi all’idea di abbandonare il “parco divertimenti”, anche il giocatore si trova a confrontarsi con la fine di un sogno coltivato per trent’anni.

È un processo inevitabile, ma anche doloroso, perché significa dire addio a una parte di sé legata all’infanzia e alla spensieratezza. Allo stesso tempo, il gioco non parla solo al pubblico, ma anche agli stessi autori: è Ron Gilbert, insieme a Dave Grossman, a sentirsi cresciuto e cambiato, e a dover chiudere il cerchio lasciato aperto tanto tempo fa.

Monkey Island ha storicamente rappresentato il riflesso delle vite delle persone che hanno realizzato quei giochi.
– Ron Gilbert e Dave Grossman, lettera ai fan

In questa frase, presente in gioco a conclusione dell’avventura, si percepisce la maturazione che la saga ha vissuto capitolo dopo capitolo, rispecchiando di fatto la crescita dei suoi creatori. Ciascun episodio è un tassello della loro esperienza e del loro sviluppo personale, riflettendo lo stesso passaggio che hanno compiuto anche i giocatori storici.

Il parco divertimenti come metafora

Tanto nei primi due capitoli quanto in Return to Monkey Island (2022), il concetto di “parco divertimenti” emerge come metafora dell’evasione e della fantasia. Già da Monkey Island 2: LeChuck Revenge (1991), Gilbert aveva seminato indizi su un possibile parco a tema, luogo in cui il giovane Guybrush (e con lui il giocatore) poteva trasformare la realtà in una fantastica avventura piratesca.

Ora, decenni dopo, è arrivato il momento di chiudere le luci, spegnere le attrazioni e uscire dal cancello. La scelta degli sviluppatori di farci “chiudere” manualmente il parco – passo dopo passo – restituisce un forte impatto emotivo: costringe a confrontarsi con la consapevolezza che l’avventura tanto amata non durerà per sempre.

I finali di un narratore inaffidabile

Uno degli aspetti più originali del nuovo capitolo è la presenza di vari finali, concepiti per lasciare il giocatore libero di decidere come “chiudere il sipario”. Che si opti per una soluzione più nostalgica o più realistica, il messaggio di fondo non cambia: chiudere è necessario, ma ognuno lo fa a modo suo. In un certo senso, questa pluralità di epiloghi rispecchia la molteplicità di sentimenti dei fan, che in trent’anni hanno immaginato infinite conclusioni possibili per la loro storia preferita.

Nel corso degli anni, ogni giocatore ha ricamato sul finale che avrebbe voluto vedere. Secondo le parole di Gilbert, il narratore inaffidabile è una componente essenziale di Return to Monkey Island (2022): Guybrush racconta (e forse “inventa”) molti dettagli, proprio come fa chiunque rielabori i ricordi dopo tanto tempo. Anche il fan, dunque, è un narratore inaffidabile, portato a idealizzare e modificare l’epilogo nella sua mente. Ogni teoria, in fondo, è valida, perché il gioco stesso ammette che non esiste una “verità” univoca: la verità è ciò che si sceglie di ricordare e raccontare.

Una fine terapeutica

La vera funzione di Return to Monkey Island (2022) si rivela dunque terapeutica: accompagna chiunque abbia amato la saga in un processo di elaborazione che, altrimenti, sarebbe rimasto incompiuto. La dolceamara sensazione di spegnere una a una le luci del parco, di andarsene con Elaine, e di chiudere finalmente i cancelli è un addio malinconico ma necessario. E la domanda finale – “Sei pronto a tornare?” – suona come un invito a chiudere il libro di questa storia, con la certezza che, se vorremo, potremo sempre immaginarne un nuovo capitolo.

Sottolineo “invito”, poiché il giocatore può anche rifiutare di proseguire con l’abbandono del parco, tornando indietro e continuando ad immaginare storie. In questo modo si lascia la libertà totale al giocatore, addirittura di “rifiutare la terapia”.

D’altronde gli sviluppatori sapevano che la gran parte dei fan avrebbe accusato il colpo una volta terminata la storia, lo scrivono anche nella lettera. In questo modo, il loro gesto diventa offrire un aiuto ad affrontare la cosa, piuttosto che forzare la fine. In fondo, nessuno vieta di tornare a essere bambini per un altro giro di giostra; ma ogni giro, per poter iniziare di nuovo, deve pur terminare.

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