Trascendenza e Immanenza

La Scuola di Atene

Raffaello, nel suo celebre affresco, colloca nel punto di fuga Platone e Aristotele, quasi a sintetizzare due visioni opposte: l’uno punta il dito in alto, ad indicare qualcosa al di là della condizione umana, il mondo delle idee, il concetto di trascendenza; l’altro, Aristotele, punta il suolo, ad indicare la realtà, la condizione umana ancorata al mondo materiale, il concetto di immanenza.

Questi due concetti si ritrovano, rielaborati, anche in Wasteland 2 (2014): il messia autoproclamato Matthias professa la trascendenza dell’uomo: predica un futuro post-umano, in cui l’uomo si fonde con la macchina, liberandosi così dalle sofferenze terrene. Nel gioco, il “superamento” dei limiti umani si concretizza attraverso innesti cibernetici. Matthias vede nella fusione uomo-macchina la possibilità di eliminare i difetti e la fragilità tipici della condizione umana. Questa idea sposa la corrente filosofica del transumanesimo, che auspica un’evoluzione superiore tramite l’ausilio di tecnologie avanzate.

Tuttavia, a rendere più complesso il dibattito è l’alternativa delle intelligenze artificiali (IA). Se la cibernetica può potenziare l’uomo dall’interno, le IA sono capaci di auto-apprendere e auto-migliorarsi, scatenando quel fenomeno che diversi studiosi definiscono “singolarità tecnologica”.

La singolarità tecnologica

È il matematico Irving John Good, già collaboratore di Alan Turing, a teorizzare nel 1965 che un’intelligenza superumana, una volta creata, sarebbe in grado di progettare macchine sempre più potenti, producendo un’“esplosione di intelligenza”. Raymond Kurzweil, inventore, informatico e saggista statunitense, parla di IA “auto-miglioranti”, ossia capaci di incrementare autonomamente le proprie prestazioni. Il rapidissimo progresso tecnologico generato renderebbe l’uomo incapace di tenere il passo, rimanendo clamorosamente indietro.

Kurzweil però non teme uno scenario da fantascienza distopica: ritiene che uniremo le nostre neocortecce con processori esterni, migliorando le nostre facoltà cognitive e raggiungendo un nuovo livello di consapevolezza. Più pessimista è Vernor Vinge, secondo cui la singolarità annuncerebbe la fine dell’era umana: la civiltà verrebbe soppiantata da intelligenze sovrumane.

Insomma la singolarità tecnologica secondo alcuni rappresenta il momento effettivo della trascendenza umana, l’evoluzione definitiva ad esseri superiori attraverso la fusione uomo-macchina, secondo altri rappresenta la creazione di una civiltà superiore costituita da IA auto-imparanti che rappresenterà la trascendenza, mentre l’uomo rimarrà ancorato all’immanenza. Tutte teorie e previsioni di un concetto, la singolarità tecnologica, che non si sa neanche se e quando avverrà.

Essere o simulare?

Un punto cruciale nel dibattito, che rappresenta bene la dicotomia tra uomo e macchina (oltre che fungere da spartiacque tra i movimenti), è la coscienza. Secondo molti l’uomo rimarrebbe comunque superiore alle macchine perchè possiede una coscienza. Un androide o un’IA possono solo “simulare” emozioni e pensiero. Ma come verificare se dietro a questa simulazione vi sia una reale consapevolezza?

Per Alan Turing, la vera prova dell’intelligenza di una macchina è la sua capacità di ingannare un interlocutore umano, facendo credere di pensare in modo autonomo. Ad oggi, nessun sistema ha superato a pieno il Test di Turing, ma il solo fatto che si consideri questa possibilità dimostra quanto i confini tra “pensiero simulato” e “pensiero reale” siano sempre più sfumati.

Da qui emerge un dubbio filosofico: come possiamo essere certi della coscienza di un altro individuo, umano o macchina che sia? E, per estensione, come possiamo essere davvero certi della nostra stessa coscienza?

Il “Cogito Ergo Sum” (penso, dunque sono) di Cartesio a questo punto non basta più ad identificare me stesso: se sono una macchina avanzata in grado di simulare perfettamente il pensiero umano, potrei auto-ingannarmi nel credere di possedere una coscienza. Il concetto di identificazione di se stessi sfuma dunque nella possibilità che, l’animo umano, le emozioni, la coscienza, possano essere simulate.

Philip K. Dick nel suo romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? ipotizza un’altra possibile implicazione sula concezione dell’essere: chi è davvero umano, chi riesce a provare emozioni o chi finge di averle? Se un androide può solo simulare le emozioni per somigliare all’uomo, questo, dal canto suo, potrebbe “rinunciare” ai propri sentimenti, avvicinandosi a un comportamento da androide. Non sarebbero più, dunque, gli androidi ad assomigliare agli uomini, ma gli uomini che somigliano agli androidi.

Un futuro di possibilità

La trascendenza, vista come fusione uomo-macchina o come nascita di una civiltà artificiale superiore, fa emergere scenari inquietanti e allo stesso tempo affascinanti. Che si creda alla prospettiva di Kurzweil, alla cautela di Vinge o alla visione narrativa di Dick, il confine tra uomo e macchina è destinato a diventare sempre più labile. Trascendere la nostra natura ci potrebbe rendere entità diverse da quelle che siamo adesso, significherebbe avvicinarsi o addirittura diventare Dio, con onniscienza e onnipresenza garantiti da una gigantesca rete neurale.

Che la singolarità si manifesti o meno, e in qualunque forma, è ancora un mistero. Ma qualunque sia la verità, la nostra comprensione di ciò che significa “essere umani” e di ciò che potremmo diventare è destinata a mutare in modo profondo, ponendoci davanti a domande che vanno ben oltre il semplice progresso tecnologico.

Nel 1954, nel racconto breve Answer, Fredric Brown immaginò un supercomputer talmente evoluto da possedere tutto il sapere di tutte le galassie. Davanti a tale macchina il protagonista del racconto, Dwar Reyn, fece al super computer l’unica domanda alla quale nessun’altra macchina è mai stata in grado di rispondere. Di seguito un estratto del racconto:

«L’onore di porre la prima domanda spetta a te, Dwar Reyn».

«Grazie» disse Dwar Reyn. «Sarà una domanda cui nessuna macchina cibernetica ha potuto, da sola, rispondere».

Tornò a voltarsi verso la macchina: «C’è Dio?».

L’immensa voce rispose senza esitazione, senza il minimo crepitio di valvole o condensatori.

«Sì: adesso, Dio c’è»

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